Narrami, o musa

Durante il XX secolo la rivisitazione del personaggio di Ulisse da parte di artisti e intellettuali si sviluppa lungo diverse trame, allineandosi perfettamente con lo spirito irrequieto tempi.

Grazie al forte richiamo esercitato dall’ambiente artistico monacense, e alla presenza sul territorio italiano di molti artisti di area germanica, le letture tedesche del mito di Odisseo non faticano a diffondersi tra gli artisti italiani. Sono però i fratelli De Chirico, Giorgio e Alberto Savinio, a rinnovare considerevolmente tali modelli, con numerose opere a tema odisseico, spesso costruite d’après le invenzioni di Arnold Böcklin ma aggiornate sulla loro ricerca stilistica, e caricate di un tono fortemente autobiografico. La continua fascinazione per i personaggi femminili dell’Odissea più oscuri, poi, come Circe o le sirene, testimonia il perdurare dei modelli decadentisti della femme fatale, seducente e distruttiva, a fianco di esempi muliebri più malinconici e lirici, come Nausicaa, allusione all’amore sofferto e non detto.

Ulisse sarà eletto a metafora della propria inquietudine esistenziale e artistica da molti artisti durante il Novecento. Nel 1922 l’Ulysses di Joyce fornirà un esempio cardinale di come un grande classico possa essere riformato con un linguaggio stilisticamente nuovo e audace, e calato nella quotidianità più contemporanea.

Esiste nel Novecento una cultura, quella che si è riconosciuta sotto le insegne del cosiddetto “ritorno all’ordine”, che non si identifica e anzi rifugge dalle seduzioni della modernità e si proietta in un’antichità nostalgica, dove le antiche Muse e il canto di Omero diventano una guida nel faticoso viaggio dell’uomo contemporaneo, dopo lo smarrimento della Grande Guerra, alla ricerca della propria identità.

Le silenziose divinità della pittura metafisica, le Muse inquietanti di De Chirico che si affacciano con i loro paludamenti classici su un palcoscenico in bilico, sullo sfondo delle torri del Castello Estense di Ferrara e delle ciminiere industriali, e la Musa borghese, anch’essa senza volto, di Carrà ci invitano, moderni Ulisse, a un nuovo viaggio di cui non appare ancora la meta. Il suo approdo non può essere che una terra desolata, quella che circonda la Solitudine di Sironi, intenta a fissare un punto lontano, al di là delle mitiche Colonne d’Ercole violate dall’eroe troppo umano, quello che ci appare nella antica testa di Sperlonga, la più iconica delle sue multiformi apparizioni.
Lo sguardo che emerge potente dalle orbite incavate e la bocca socchiusa appaiono come una invocazione tremendamente attuale verso un recupero del senso della vita in un momento in cui sembra irrimediabilmente smarrito.

Di questa perdita troviamo l’eco nella concitazione espressionistica e nella gestualità dell’Ulisse di Martini. Rimangono allora due possibilità: quella di evadere nel territorio nostalgico di una perduta antica età dell’oro, come è magicamente evocata nel Parnaso senza tempo di Funi; o di inoltrarsi senza alcuna certezza come l’Ulisse di Dante nei misteri dell’introspezione e della conoscenza, come le donne evocate in The Encounter di Bill Viola.