UN PROGETTO CULTURALE DELLA CITTÀ

Il ciclo di grandi esposizioni, ideate e realizzate in diciassette anni (2005-2022) dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì al Museo Civico San Domenico, costituisce un vero e proprio progetto culturale della città allargato a una parte significativa del territorio romagnolo.
Le 17 grandi mostre della Fondazione rappresentano un ciclo unitario sia per la tipologia, sia per il metodo. Il modello inaugurato alla fine del 2005, in un binomio pressoché inscindibile con gli spazi museali del San Domenico, ha superato il collaudo del pubblico: oltre un milione e mezzo di visitatori, e della critica: un consenso pressoché unanime.

Grandi Mostre Fondazione Forlì

Le grandi mostre

Le mostre sono state lo strumento per rispondere a una domanda: come riscoprire l’identità storico-culturale della città e del suo territorio in una chiave che non fosse né di pura conservazione del patrimonio, né di sola valorizzazione in sede locale?

Ci siamo mossi su un duplice asse: memoria e produzione culturale. Se il primo asse atteneva all’elaborazione del progetto, alla sua qualità scientifica nel vasto campo culturale, il secondo alla sua dimensione, tutta orientata su un piano nazionale.

Come individuare una pratica dell’identità che non fosse localistica? Certo si potevano organizzare eventi, ricerche sul nostro territorio, era stato fatto in passato. Si potevano individuare narrazioni specialistiche, conservare e ordinare il proprio patrimonio, la propria memoria, la propria storia. Oppure si potevano importare prodotti preconfezionati, talora di successo, sempre più diffusi dalla seconda metà degli anni ottanta nel mercato culturale nazionale e non solo.

Da una parte l’impianto specialistico locale, dall’altra, come facevano già molte città, l’avventura dell’evento commercializzato.
Non abbiamo seguito né la strada della pura conservazione locale, né quella dei festival e degli eventi spot. Ci siamo collocati dal lato della produzione autonoma, non da quello dell’affitto o della commercializzazione di eventi, cercando contemporaneamente una dimensione almeno nazionale.

Il Museo Civico San Domenico

L’idea stessa di mettere mano al restauro del Museo Civico San Domenico, avviata e proseguita meritoriamente dalle amministrazioni comunali, era innovativa ma fortemente rischiosa perché il complesso conventuale, così ampio, risultava sovradimensionato rispetto al solo bacino di utenza di una città come Forlì e farne il luogo esclusivo di trasferimento dei Musei civici apriva il problema di una gestione al limite della sostenibilità a fronte di un numero esiguo di visitatori.

Ci siamo domandati (Fondazione e Comune assieme) se c’era una via diversa, che – accanto al progressivo completamento degli ambienti per consentire il trasferimento della Pinacoteca Civica – potesse attrarre a Forlì un numero ben più ampio di visitatori e rendere la città protagonista a livello culturale.

L’idea, maturata nel 2002, di inaugurare una parte del San Domenico restaurato con una grande esposizione ci ha fornito l’occasione per un progetto diverso. Fu stipulato un accordo tra Comune e Fondazione (il primo tra pubblico e privato di questo genere e poi riconfermato negli anni) che consentisse alla struttura museale di funzionare e, nello stesso tempo, al complesso del San Domenico di ospitare grandi eventi espositivi.

La lezione di Francesco Arcangeli era lì a ricordarci che “l’Italia è fatta di luoghi, di province, ma quando queste toccano terra in profondità, trovano per risorgiva una loro grande storia e subito sono universali, almeno quanto le grandi città”. La lezione del passato è nella creazione di sé stessi, nella capacità di progettare cose nuove, non nella semplice musealizzazione del passato o nel consumo di una produzione culturale standardizzata. La cultura è costituita dal vissuto di una comunità concreta. Anche nel nuovo contesto multimediale. Viviamo in un’epoca che ha fatto della trasversalità, della mobilità, dell’ibridazione, dello sradicamento la sua nuova patria virtuale, senza più confini o barriere o steccati.

Una nuova e allargata concezione di comunità non significa necessariamente smarrire il senso dell’identità, anzi.
È proprio quando si smarrisce quel senso che si viene, di contro, come ribaltati nelle forme illusorie della chiusura identitaria, del recinto difensivo. Solo chi ha consapevolezza del proprio valore, chi non ha smarrito la creatività progettuale, può affrontare le incognite e i rischi del presente.
Ma solo la cultura ha la capacità di interiorizzare sentimenti collettivi, e rappresentarli. Un luogo è tale se diventa linguaggio narrativo. Ritrovare dunque la grande Storia nell’esperienza significativa della propria storia.

Rileggere l’una e l’altra assieme. Indagandone tutti gli aspetti, le relazioni, i rispecchiamenti. Questo era il progetto.
Non solo per ricordare, ma per ritrovare e ricreare.

Il valore dell'arte

Abbiamo costruito negli anni una rete di collaborazioni sul piano scientifico che ha visto il coinvolgimento di oltre novanta studiosi, di varie discipline, appartenenti a tre diverse generazioni di studi, attorno a un gruppo di mischia più ristretto che ha visto protagonisti Antonio Paolucci, Fernando Mazzocca, Daniele Benati, Cristina Acidini, Giuliano Matteucci, Carlo Sisi, Paola Refice e il compianto Stefano Tumidei.

Grazie al consenso crescente di prestatori pubblici e privati, italiani e internazionali, abbiamo potuto portare a Forlì oltre tremila opere. Autentici capolavori di ogni tempo. Si è trattato di una interlocuzione credibile costruita con grande impegno e molte collaborazioni, oltre che con tutti i musei italiani (grandi e piccoli) anche con realtà internazionali come i Musei Vaticani, il Museo del Prado di Madrid, il Musée d’Orsay di Parigi, l’Ermitage e il Puskin di Mosca, la National Gallery e il Victoria and Albert Museum di Londra, l’Alte Pinakothek di Monaco, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Metropolitan di New York, per dirne alcuni.

Non meno preziosa a livello intellettuale è stata la collaborazione di quanti hanno lavorato sul piano degli allestimenti, sul piano editoriale e della comunicazione. Nonché le tante collaborazioni sul piano tecnico. Dal momento che l’interpretazione scientifica originale di questi progetti non sta solo nell’idea iniziale e nella sua elaborazione, ma anche nella rappresentazione, nella sua esecuzione, nella comunicazione e nella gestione stessa.

Potremmo dire che la costituzione di un gruppo di lavoro piuttosto coeso, dotato di relazioni autonome significative messe al servizio di una causa comune, ha fatto la differenza. La condivisione di una sfida, fatta da soggetti diversi, con esperienze nazionali e internazionali, è stata un elemento decisivo.

Un’opportunità per il territorio

Queste diciassette esposizioni sono state anche una grande occasione di recupero del patrimonio artistico locale e di investimento culturale e lavorativo verso i giovani post-universitari, le scuole e l’associazionismo. Le mostre hanno dato vita a un significativo sistema di relazioni e sono state un volano di sviluppo per il territorio.

Abbiamo favorito eventi e mostre collegate, realizzate autonomamente da altri Comuni e istituzioni locali, da due a tre per ogni esposizione al San Domenico, dislocate nel territorio delle province di Forlì-Cesena e Ravenna. Gli accordi fatti con le associazioni di categoria e le Camere di commercio su gran parte del territorio romagnolo, privilegiando fin dalla prima mostra il rapporto tra il mare e l’entroterra, hanno dato risultati positivi per tutti.

Ci si chiede da tempo quale sia la strada della valorizzazione dei beni culturali del nostro paese. Cercarla a Forlì è stato complesso e oneroso. Altri hanno seguito un modello analogo al nostro, ma poi hanno desistito. Decisivo è stato il tema della durata nel tempo. La continuità qualitativa di una proposta e di un investimento significativo hanno fatto la differenza, creando un marchio di garanzia.

Forlì, città d'arte

Trasformare Forlì in una “città d’arte”, attorno a un evento, sembrava ragionevolmente a molti un’impresa impossibile e inutilmente dispendiosa: Forlì era del tutto ignorata dal turismo culturale e particolarmente sfavorita dal flusso turistico generale. Bisognava dunque portare le persone a vederle le mostre, bisognava portarle a Forlì.

Se circa un milione e mezzo di persone sono venute in questi anni a Forlì a vedere le mostre al San Domenico, a visitare la città e i suoi musei, nonché le città e i territori circostanti; se di queste solo il 2% sarebbe venuto ugualmente; se per ogni euro investito dalla Fondazione (ogni mostra ha richiesto in media un investimento di 2 milioni di euro) ne sono giunti nel territorio da 1,7 a 2,4 (come ci hanno raccontato le indagini condotte), forse non ci siamo illusi.
Delle mostre forlivesi il prof. Antonio Paolucci, che ne è stato dall’inizio il Presidente del Comitato Scientifico, ha detto:
“Queste 17 mostre possono essere considerate un miracolo italiano, il miracolo di una città che ha voluto darsi una riconoscibile identità culturale e che, per riuscirci, ha saputo aggregare un blocco compatto di inventiva culturale, di determinazione politica e di risorse economiche guidandolo, senza incertezze e senza ripensamenti, al risultato. Certo, costruire mostre sempre innovative con cadenza annuale nel San Domenico non è impresa facile. Nessuno lo sa bene come Gianfranco Brunelli che degli eventi espositivi è l’efficientissimo commissario”.