Il canto delle sirene

SEDUZIONE E MORTE

Nel mondo simbolista le sirene per metà donna e per metà pesce – una evoluzione dell’originario ibrido donna-uccello della Grecia antica – divennero le figure più popolari di una serie di creature femminili marine (nereidi, ondine, oceanine) in cui l’arretramento verso l’elemento acquatico rispondeva al nostalgico desiderio di una simbiosi totale tra l’uomo, liberato dalle costrizioni borghesi, e una natura rigeneratrice e immemorabile, ancorata ai miti semplici delle origini.

Era poi nell’acqua, in cui Freud avrebbe visto una metafora dell’inconscio, che l’estetica simbolista individuava l’elemento in cui potevano concentrarsi traslati allegorici profondi, in bilico tra la vita e la morte.

In questa ottica di vitalismo organico, di fertile fusione tra l’essere umano e il mare, in cui la stretta simboleggia l’Uno dell’inizio, si può ricondurre il böckliniano Tritone e nereide di Klinger, dove a prevalere è l’attrazione erotica esercitata dall’essere femminile: la nereide come diversa incarnazione della sirena. Un abbraccio votato all’eros è anche quello che si consuma tra il pescatore e la carnosa sirena neo-secentesca nel dipinto di Beauvais, come nella Sirena di Sartorio, il cui scenario è un inquietante mare in bonaccia che ci proietta in una diversa dimensione temporale. Ma qui i resti delle vittime che si intravedono sul fondo ci dicono che dalla seduzione si giungerà alla sopraffazione e alla morte.

C’è un altro aspetto da considerare. Svincolate dalle trame narrative del mito, isolate in contesti enigmatici, alle soglie della modernità le sirene pisciformi, ma anche gli altri ibridi marini femminili, si fecero portatrici della multiforme complessità di un nuovo universo femminile in cui coesistevano il desiderio sessuale, la potenza dell’eros, la seduzione ingannevole, l’attrazione e la repulsione, l’elemento materno, la fierezza – talvolta crudele – della donna moderna, in grado di amare con libertà e consapevolezza e di soggiogare l’uomo. Si legge in questa prospettiva la Sirena di Waterhouse celata negli anfratti delle coste di Capri. Gli occhi fissi, i lunghi capelli rossi messi in bella mostra a significare l’insidia, la sensuale bellezza delle anatomie ne fanno l’incarnazione assoluta della tentazione femminile: quella del giogo della donna fatale.

Si leggono in questi termini la Sirenetta della De Morgan, le Sirene di Viazzi, dove addirittura una di loro trascina ingannevolmente in mare un uomo, ma anche le Naiadi di Pagliei e le ninfe sensuali e moderne di Poynter. Proiettano invece nei mari del Nord il mito mediterraneo delle antiche sirene greche, riconducendolo all’immaginario celtico, La sirena di Galloway del 1807 di Hilton e Le sirene del nord di Thomas Millie Dow, quando siamo ormai nel 1930.

Prima però della virata verso il Simbolismo, in cui le sirene appariranno sempre più come entità polisemiche svincolate dal racconto omerico, la suggestione dell’incontro tra Ulisse e le sirene riemerge in un’opera di grande formato del francese Belly esposta al Salon di Parigi nel 1867. In mostra ne è esposto uno studio preparatorio di grandi dimensioni. Belly affidava la carica del dipinto a un linguaggio classicista ancora di matrice accademica in cui precisi riferimenti a Rubens (Lo sbarco di Maria de’ Medici a Marsiglia) si incrociavano con le tante Galatee della tradizione pittorica classicista (da Raffaello alla scuola francese del Settecento).