Dante, Inferno XXVI Canto
Dante, che scrive duemila anni dopo il cosiddetto Omero, non usa direttamente la tradizione greca, ma quella latina (Cicerone, Stazio, Virgilio, Orazio, Ovidio), che a differenza dei postomerici ha rivalutato le qualità umane di Ulisse. Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante può conferire per questo a Ulisse una nuova e diversa centralità. Fino a sovrapporre il suo Ulisse a quello di Omero. Il suo Ulisse non appartiene più al ciclo dei nostoi, dei ritorni da Troia. Egli è semmai una figura aperta al nuovo mondo. Il suo protagonista non è spinto dalla nostalgia del ritorno, né, come l’Enea virgiliano, da una missione; egli è un viandante, spinto dall’ardore “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, e si lancia “per l’alto mare aperto”, verso il “folle volo”.
Storia potente e controversa la versione dantesca di Ulisse, nella quale i due destini (Dante e Ulisse) si incontrano e si sovrappongono, poiché anche la Commedia è un viaggio – che coinvolge la visione cristiana del destino dell’uomo proprio nel confronto con l’etica antica.
Nel racconto dantesco, posto nell’VIII bolgia, quella dei fraudolenti, Ulisse si presenta con Diomede assieme al quale ha rubato il palladio da Troia ed è ricordato come l’artefice dell’inganno del cavallo. Ma il racconto dantesco va oltre.
È della fine di Ulisse che Dante vuole parlare. Di quella fine della sua esistenza della quale i poeti (Virgilio, Cicerone e Orazio) non hanno detto. Il racconto di Ulisse non è relativo al suo peccato di ingannatore, per il quale viene condannato. Il suo racconto apre al riconoscimento della ragione, della mente: la facoltà più alta dell’uomo, che nel Convivio è detta da Dante “deitade”. Qui il viaggio di Ulisse si inscrive nel rapporto tra Grazia e Natura, e attiene al riconoscimento del limite naturale.
Dante costruisce l’episodio come un grande affresco sulle virtù e i limiti del mondo antico. Risuonano qui le parole di Orazio “quid virtus et quid sapientia possit, utile proposuit nobis exemplar Ulixen…” a ricordare la sua vicenda umana, l’avventura della sua mente umana, protesa al primato della conoscenza (“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”). E il problema è la dialettica tra virtù e conoscenza, la misura del limite. Questo affascina Dante. E questo è il problema che, fuoriuscendo dal Medioevo, Dante consegna all’umanesimo rinascimentale.
L’influsso di Dante e del suo Ulisse sull’arte è strettamente legato alla realizzazione dei cicli illustrati (tra manoscritti e prime edizioni a stampa) della Commedia. È inizialmente un interesse testuale, legato al corredo illustrativo, ma col passare del tempo si fa interpretativo. I capolavori illustrativi di Mariotto di Nardo e Guglielmo Giraldi della Biblioteca Apostolica Vaticana, o il Miniatore della Marciana, fino al Dante istoriato e illustrato di Botticelli e poi di Zuccari, segnano un influsso che autonomamente la pittura si incaricherà dapprima di accompagnare e in seguito, soprattutto nell’Ottocento (il vero secolo di Dante nell’arte), di sviluppare autonomamente, facendo vivere i singoli personaggi di storia propria, in una vicenda quasi staccata dal poema dantesco. Ma se c’è un passaggio interpretativo che influenzerà l’iconografia successiva questo è forse il commento landiniano alla Commedia. Landino presuppone in Dante il medesimo scopo che si erano prefissi Omero e Virgilio, dimostrare “l’uno per Ulixe, l’altro per Enea […] in che modo venendosi nella cognitione de’ vitii et conosciutogli, purgandosi da quegli, s’arriva finalmente alla contemplazione delle chose divine”. Una legittimazione pressoché completa dell’antico nell’umanesimo cristiano.