Avanguardie e reazioni nel Novecento. Il Futurismo

Rompere con le costrizioni formali dell’abbigliamento borghese. Questo il comandamento nuovo. Il Futurismo rivolge da subito il suo interesse al mondo della moda e al modo di vestirsi, inteso come espressione di un gesto artistico che coinvolge la sfera sociale, politica e culturale della modernità. Come scrive Ardengo Soffici, per i futuristi “la moda è il rivestimento esterno, visibile dell’arte”, “l’abito fresco e fiammante onde si veste, di stagione in stagione, la bellezza immutabile”, ma anche l’atmosfera in cui respirano i talenti creativi di un’epoca: “essere alla moda vuol dire essere moderni. E chi non è alla moda e moderno è fuori dall’arte viva”.

“Si pensa e si agisce come si veste”, sostiene Giacomo Balla, il quale considera il vestito non solo un accattivante objet d’art, ma anche un vero e proprio esercizio di comunicazione, un linguaggio colorato e poli-sensoriale. Nel manifesto da lui dedicato nel settembre del 1914 a Il vestito antineutrale (a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia), l’artista prende le distanze dall’aspetto “desolante, funerario e deprimente” del costume maschile, che da un secolo rappresentava l’etica del lavoro e la credibilità dell’uomo borghese.

Se il Divisionismo (cfr. qui il Ritratto di Carlo Manna, di Boccioni) è il presupposto della tecnica della pittura futurista, il suo compimento consiste nella piena scomposizione, nel dinamismo e nella compenetrazione dei soggetti e delle cose. “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente”. Esemplari sono qui le opere di Balla, Depero e Pippo Rizzo.

Proto-fashion designer, prima ancora di proclamarsi futurista, Thayaht inizia nel 1919 a collaborare saltuariamente con Madeleine Vionnet e, dal 1922, stipula l’esclusiva con la Maison parigina delle sue creazioni di couture.