La visione degli antichi
Nei passaggi storici di cambio d’epoca si ridiscutono radicalmente l’idea di tempo e il modello narrativo della realtà. Cambia l’interpretazione del presente. Il tema del tempo non riguarda più solamente il suo scorrere, il suo fluire. Esso riguarda la sua figura simbolica, carica di attese, di necessità, di decisioni. Da kronos, il tempo si fa kairos. Da flusso ininterrotto a istante decisivo, carico di senso. È così che ogni presente dialoga con qualche passato. Un passato reale o più spesso immaginato. Riscoperto o ricreato, che legittimi le forze del presente, le loro aspirazioni, i sogni o le proteste.
Quando nel 1854, Frederic Leighton, dipinge La celebre Madonna di Cimabue portata in processione per le strade di Firenze, sintetizza il sentire di un’epoca, il sogno di una generazione, piuttosto che la ricostruzione di un episodio storico o la sua autentica rappresentazione. Oggi sappiamo che la Maestà che s’intravede nel quadro di Leighton non è di Cimabue, come allora si credeva, bensì di Duccio. Ma questo non modifica l’intento.
La cultura romantica concorre nell’Ottocento a costruire un’immagine evocativa e mitizzata del Medioevo e del primo Rinascimento. Si elabora un modello duttile, di enorme fortuna critica, declinabile e adattabile alle diverse urgenze storiche del periodo: dalla Restaurazione politica alle tematiche risorgimentali, dalla ripresa dell’ispirazione religiosa alla polemica sociale contro lo sviluppo dell’industrializzazione.
Ma è il recupero del sentimento come densità qualitativa dell’esistenza, la via privilegiata, oltre le convenzioni sociali, per esaudire la propensione dell’io verso l’infinito. E l’arte appare in sé stessa come un ideale di vita.
È in questo contesto che nasce un movimento così complesso e frastagliato come quello dei Preraffaelliti. Li accomuna al sentimento del tempo, il rifiuto della codificazione di regole, elaborate nei secoli sui modelli ritenuti esemplari, e quindi “classici”, in favore della ricerca di un’arte spontanea, immediata, in grado di valorizzare le componenti sentimentali e interiori e al contempo gli aspetti dell’onirico e dell’irrazionale.
La convinzione dei Preraffaelliti che “soltanto nelle opere più antiche si potesse trovare la salvezza” li spinse a trarre ispirazione da figure come Cimabue, Giotto e i giotteschi, Taddeo di Bartolo, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli e i due Lippi, Rosselli, Verrocchio e Botticelli e tutti gli artisti del Quattrocento italiano. Quella scelta fu difesa da John Ruskin, che riconosceva nella loro pittura la volontà morale, oltre che estetica, di tornare a un’arcaica onestà e a un’attenta osservazione della natura che dal “raffaellismo” del secondo Rinascimento in poi era stata tradita, grazie al “veleno brillante e limpido dell’arte di Raffaello”.
L’Italia, nei suoi paesaggi, nella sua arte e letteratura, nella sua storia esercita su di loro una grande fascinazione. Sognavano l’arte degli Antichi maestri. E questi erano i grandi del Tre e del Quattrocento italiano. Toscano soprattutto. E fra essi il supremo Botticelli. Poi lo sguardo andò ampliandosi, con gli artisti della seconda generazione.
Le opere incluse in questa sezione iniziale sono state scelte, attraverso una eccezionale campionatura di capolavori (da Cimabue a Botticelli), con l’intento di mostrare una triplice visione: cosa quelle opere sono state in sé stesse, com’erano allora, nel tempo della loro creazione, come furono viste dai Preraffaelliti, e come le intendiamo ora.
Solo il principio di differenza ci consente di analizzare la comparazione, di lumeggiarne i riferimenti successivi, il climax che ha reso quelle opere una ispirazione, una fonte e una lezione vieppiù ripresa e rielaborata, fino a mostrarne anche la distanza.
Le inserzioni di alcuni, pochissimi artisti (Leighton, Burne-Jones, Cayley Robinson, Pomeroy), appartenuti a diverse generazioni del preraffaellismo, come in una ouverture, servono a dichiarare il tema di tutta la mostra.
Il Santo Graal
Gli arazzi che narrano la leggenda del Santo Graal rappresentano l’opera più monumentale disegnata da Burne-Jones ed eseguita dalla manifattura Morris & Co.
Re Artù, leggendario sovrano della Britannia alto medievale, fu una figura molto popolare in epoca vittoriana, soprattutto per l’associazione con gli ideali della cavalleria, incarnati nel mito di Camelot e dei Cavalieri della tavola rotonda. Le storie arturiane erano molto famose: in Dante, Paolo e Francesca cedettero al loro amore leggendo di Lancillotto e Ginevra. L’edizione curata da Robert Southey (1817) di Le Morte d’Arthur di Thomas Malory (1485) catturò l’attenzione di Burne-Jones e di Morris nel 1855. Nei decenni successivi le storie e i personaggi legati ad Artù comparvero spesso nelle loro opere.
Gli arazzi tessuti in lana e seta qui esposti appartengono alla seconda serie del 1898-1899 (la prima serie di arazzi del Graal fu disegnata tra il 1890 e il 1893), realizzati dagli esperti tessitori ai telai della Merton Abbey. Moderna tecnologia e artigianato del passato si fondono, con un risultato finale che può essere paragonato agli arazzi della Cappella Sistina, tessuti nel Cinquecento su cartoni di Raffaello.
La sequenza vede la partenza dei cavalieri, ritratti sui loro destrieri mentre si congedano dalle dame di corte. La scena è ambientata davanti a Camelot, dove si trova la regina Ginevra che porge uno scudo a Lancillotto. I due arazzi successivi mostrano due insuccessi nel raggiungimento dell’obiettivo: Il fallimento di Sir Gawain che, insieme al compagno Sir Ywain, viene fermato davanti alla porta di una solitaria cappella da un angelo che li rimprovera per la loro mancanza di fede (manca la parte dell’arazzo che raffigura l’angelo sulla soglia della cappella). Il terzo arazzo narra del fallimento di Sir Lancillotto: il cavaliere è addormentato e un angelo sbarra il cammino. La scena finale è illustrata su un arazzo di grandi dimensioni, quasi a sottolineare la lunghezza del viaggio che ha portato alla meta. Sir Bors e Sir Percival, ritratti a sinistra, l’uno in piedi e l’altro inginocchiato, accanto al mare agitato su cui si è compiuto il loro viaggio, riescono soltanto a scorgere un bagliore in lontananza. La sezione centrale è occupata da tre angeli e infine a destra compare Sir Galahad, il figlio di Lancillotto – circondato da gigli come il più puro dei cavalieri –, inginocchiato davanti alla soglia del santuario, dove il Graal si rivela.
Gli arazzi ebbero un impatto profondo sugli artisti e sul grande pubblico, sia quando furono presentati all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900, sia nel 1924-1925 quando furono inclusi nella più grande mostra mai organizzata, la British Empire Exhibition di Wembley.