Burne-Jones e il mito dell’Italia
L’intera vicenda di Edward Burne-Jones è indissolubilmente legata all’arte italiana, alla quale l’artista inglese si accosta dapprima con la mediazione di Rossetti, poi per influsso di Ruskin, infine attraverso una scelta autonoma, abbracciata e vissuta come autentico destino.
A Rossetti deve l’amore per Dante e le prime indicazioni sull’arte del Rinascimento italiano, filtrate attraverso quei Sonnets for Pictures dedicati fin dal 1849 a Leonardo e Mantegna, inoltre l’adesione a un Medioevo che porge già la mano al clima estetico, sottrae peso alla storia, si incanta ad analizzare sottili associazioni di colore e musica. Rossetti è troppo impaziente per essere realmente un maestro: la sua influenza diretta è destinata a cessare presto, ma è lui a trasmettere a Burne-Jones il senso poetico della materia pittorica, l’approccio agli elementi innovatori seppure contradditori di un’intera epoca.
I suoi viaggi in Italia erano cominciati con John Ruskin addirittura intorno al 1855 e lo studio delle opere veneziane e fiorentine del Quattro e del Cinquecento lo accompagnano per tutta la vita, così come la ricerca di testi poetici antichi e medievali con cui si confrontò di continuo, tanto che proprio Henry James sottolineò “quanto si potesse quasi dire che il signor Burne-Jones dipinga con la penna”.
I taccuini italiani di Burne-Jones rendono omaggio agli affreschi del Camposanto di Pisa, tipico incunabolo della cultura preraffaellita; a Firenze registrano l’emozione di fronte alla linea serpentina della Vergine nell’Annunciazione di Simone Martini agli Uffizi. Colgono inoltre l’intensità volumetrica di Giotto e dei giotteschi in Santa Croce, propongono rapidi schizzi da Filippo e Filippino Lippi, Masaccio, Paolo Uccello, Botticelli. Né mancano incursioni nell’arte veneta di Bellini.
Tutti i grandi cicli pittorici presenti in mostra sono ispirati, nell’evolversi delle sue contaminazioni formali, a questo climax, che molto influenzerà il simbolismo europeo. La sua adesione alla classicità avviene sempre attraverso una fusione con elementi rinascimentali, creando un preciso rinnovamento iconografico all’interno dell’estetica preraffaellita. Con il procedere degli anni, l’influsso dell’arte italiana diventa sempre più articolato. Oltre a moduli botticelliani confluiscono nel lavoro di Burne-Jones spunti da Piero di Cosimo, dalla grafica cinquecentesca e da Mantegna. Nel 1871, nel corso di una visita a Roma, Burne-Jones resta folgorato dal genio di Michelangelo, che ispira la sua adesione a un classicismo figurativo. Il rapporto col disegno di Michelangelo costituisce un fattore importante per l’emergere del nudo nell’arte di Burne-Jones. Ed è su Michelangelo che avviene la sua rottura con Ruskin.
Edward Burne-Jones e William Morris
Il pianoforte Graham (o di Orfeo), legno dipinto (cassa di John Broadwood & Sons), fu decorato con disegni realizzati da Edward Burne-Jones nel 1875 che illustrano il poema di William Morris, La storia di Orfeo ed Euridice, rimasto inedito finché l’autore fu in vita. Sull’esterno del coperchio è riportato, in italiano, il sonetto Fresca rosa novella di Guido Cavalcanti. La maggior parte dei pannelli di Orfeo si deve a un assistente, forse T.M. Rooke, mentre l’interno del coperchio fu dipinto da un aiuto e rifinito da Burne-Jones. Il pianoforte fu commissionato da William Graham (1817-1885), amico e mecenate di Burne-Jones, come regalo di compleanno per la figlia Frances, che fece da modella per il volto di Euridice.
Insoddisfatto della forma pesante e bombata del pianoforte a coda standard, Burne-Jones si interessò per un certo periodo alla progettazione e decorazione di pianoforti, fino a definire linee più semplici e squadrate riprese dal clavicembalo. La decorazione pittorica mostra un debito particolare verso l’arte rinascimentale, in particolare verso Botticelli. Vi è raffigurata la storia di Orfeo, poeta e musico figlio della musa Calliope, e del vano tentativo di riportare in vita la sua sposa Euridice.
Nei primi anni di attività della ditta Morris, Marshall, Faulkner & Co., la produzione di vetrate richiese un notevole impegno a diversi pittori preraffaelliti, con un contributo sostanziale di Edward Burne-Jones, nonché di Dante Gabriel Rossetti e Ford Madox Brown. Lo stesso William Morris fornì molti disegni (come quello dedicato alle Tre Marie al sepolcro).
I pannelli di vetro colorati qui esposti portano la firma di William Morris, Edward Burne-Jones e di Henry Holiday. Riutilizzando i cartoni originali (in genere figure angeliche, come per gli Angeli custodi), le figure non religiose (qui il Menestrello con cembali) “perdevano” le ali. Lo stile del disegno segna l’abbandono dell’ispirazione goticizzante a favore di un approccio più vicino all’arte classica e rinascimentale. Oltre ai temi religiosi si impongono anche i temi letterari, come nel Dio dell’amore e Alceste. Nel prologo di The Legend of Goode Wimmin di Geoffrey Chaucer, l’autore viene rimproverato perché presenta le donne sotto una cattiva luce. Alceste chiede quindi un poema che esalti le virtù delle donne e le loro buone azioni.