NEL GRAN TEATRO DEL MONDO
Si afferma nel XVII secolo la riflessione sull’artista nel suo ambiente di lavoro, nel suo studio, e sul suo mestiere, inteso come allegoria delle arti. La luce caravaggesca, rispecchiamento della condizione umana, è divenuta in tutta Europa un modello narrativo. E l’identificazione tra la tragedia della storia (sacra o profana che sia) fornisce una delle chiavi interpretative dell’autoritratto. Si pensi a Vouet e ad Allori. L’Autoritratto, o allegoria della pittura, di Artemisia Gentileschi supera per un istante la tragica vicenda dell’artista, ripetutamente espressa nelle sue Susanna o Giuditta, attesta un’identificazione tra l’artista e lo stile meno intimistico: un’esaltazione della fatica fisica, una sensuale austerità. L’artista è all’opera, l’artista è l’opera.
Ma lo status dell’artista rimane questione irrisolta: intellettuale, ausiliare del potere, cortigiano, attore, buffone. A metà del Cinquecento, Paolo Giovio aveva paragonato gli artisti agli attori. Veronese ai buffoni. Velázquez, un secolo dopo, pone l’artista al centro della historia, che nel suo tempo passa per le Corti europee. Ci si ritrae allora nelle vesti di santi (Luca Giordano, De Ribera) o di sgherri (Salvator Rosa). Mentre il modello dell’intellettuale gentiluomo, del pictor doctus, è il genere che celebra un maestro riconosciuto, imitato e sfidato come Pieter Paul Rubens.
E se Rubens si sofferma assai poco su di sé, Rembrandt continuerà tutta la vita, nelle sue tele come nei suoi disegni dai quali sono state tratte magnifiche acqueforti, ad apportare inquieti ritocchi alla sua immagine, scandendo le fasi della propria esistenza con una enigmatica, per non dire ossessiva, produzione di auto-raffigurazioni. La lunga, programmatica serie dei suoi autoritratti non attesta più solo la fama del pittore, bensì contribuisce a crearla. Il suo volto diviene famoso. Rembrandt rende l’autoritratto un genere autonomo, unico, di successo. E tuttavia egli rimane incredibilmente originale e mai ripetitivo. Le sue figure rimandano all’enigma. Quasi “maschere sovrapposte”, come si è detto.
Nel corso del secolo recitare col proprio volto è questione che attiene non solo al teatro, ma viene affrontata anche dagli artisti. Autoritratti in forma di attori. L’artista indossa costumi esotici (Adler). Nella «società delle maschere» (le Corti di allora), i volti venivano portati come se fossero maschere.
Una straordinaria concettualizzazione del sé, la complessa domanda del «chi sono io?», ce la illustra intorno al 1646 un ventenne viennese assai poco noto, Johannes Gumpp. Il suo Autoritratto risponde alla triplice visione dell’artista. Di spalle, in piedi, mentre dipinge, l’artista ha il volto riflesso nello specchio e di nuovo il suo volto appare dipinto sulla tela, mentre si rivolge a noi.