NARCISO NELLO SPECCHIO DEL NOVECENTO

Un cambiamento radicale nel genere dell’autoritratto avverrà nel Novecento, con la nascita delle Avanguardie e poi nel clima del ritorno all’ordine tra le due guerre, quando gli artisti condurranno un’attenta, continua, persino ossessiva, indagine su sé stessi. I loro autoritratti (Donghi, Guidi, Marussig), metteranno in scena l’intima convulsa crisi dell’individuo negli anni di quel secolo segnato da grandi scoperte scientifiche e da grandi tragedie.

Impietoso, esasperato, crudele, scandaloso, irritante nella sua voluta mancanza di armonia compositiva, Egon Schiele rappresenta i fantasmi della propria psiche, e riversa nello spettatore il peso della propria sconfitta. La stessa sensibilità si ritrova nelle immagini del pittore Domenico Baccarini che – come in una specie di apparizione medianica – scopre al posto dell’io il proprio doppio, il fantasma di sé stesso, il perturbante straniero che si nasconde sotto la ingannevole e bugiarda facciata del mondo.

In questa prospettiva, ma in una chiave più giocosa e dissacratoria, andranno interpretate anche le “teste che fanno smorfie stravaganti” di Giacomo Balla, autoritratti audaci da lui chiamati “autosmorfie”, nei quali l’artista precorre le sue successive e più sperimentali ricerche futuriste.

In quest’epoca, caratterizzata dal venir meno dell’Io come immagine unitaria, che investe una vasta area della cultura europea, infatti, si afferma il tema della maschera, che assume i tratti del dolore nel caso dello scultore Adolfo Wildt, fino a diventare nelle opere di Gino Severini l’emblema dell’eterna commedia umana. A questo tema, in chiave pirandelliana, si rivolge anche il poliedrico pittore triestino Cesare Sofianopulo – “angelico, pensoso, satanico, imperatorio e irresistibile” – che nel corso della sua ricerca artistica indaga il meccanismo psicologico per cui l’uomo si fa maschera di sé stesso.

All’indomani della Prima guerra mondiale, in un mondo sconvolto che aveva perso tutte le sue certezze, Giorgio de Chirico indica con sicurezza la via da percorrere nel recupero del passato: “Tornare al mestiere!”. Nell’ambito culturale del Ritorno all’ordine, si assiste al recupero del dialogo tra tradizione classica e modernità. Si delinea allora una nuova concezione dell’artista, che oscilla tra la figura dell’iniziato, e quella dell’artigiano eccelso, capace di far tornare i fasti della migliore tradizione italiana. Convinzioni condivise dagli artisti che si riconoscono nel movimento di Novecento, nato nel 1922 attorno a Margherita Sarfatti, tra i quali Achille Funi, Mario Sironi e Anselmo Bucci, che ne I pittori fissa la propria immagine di artista come un moderno maestro rinascimentale al lavoro sui ponteggi.

Nella tensione a svelare le contraddizioni interne e le irrisolte ambiguità del mondo contemporaneo, gli autori del Realismo Magico si dedicheranno a una pittura dell’incanto. Quello dello specchio, interpretato come soglia verso l’indecifrabile e proiezione del doppio, diviene un tema centrale: negli anni Venti il prisma di vetro diventa il simbolo più compiuto del mondo espressivo di Ferruccio Ferrazzi, ma ritorna anche nelle riflessioni di Mario Tozzi come simbolo dell’arte stessa.

L’autoritratto assume il valore di una dichiarazione programmatica del percorso dell’artista, come nel caso di Giorgio de Chirico che varierà all’infinito la propria autorappresentazione, rispecchiandosi nei diversi momenti della propria poetica. L’Autoritratto nudo, del 1945, rappresenta un’eccezione: la critica lo ha interpretato narcisisticamente, non cogliendovi un amaro momento di verità: il pittore si mostra nella vulnerabilità di quel corpo indifeso, segnato dal tempo.

All’indomani della Seconda guerra mondiale, Gregorio Sciltian, Pietro Annigoni e i fratelli Antonio e Xavier Bueno, firmano il manifesto dei “Pittori moderni della realtà”, nato dal rifiuto delle seduzioni della modernità: un crocevia di raffinata pittura che ripercorre i modelli del passato. Nel 1953, in un’opera che si richiama alla grande tradizione pittorica del Seicento, Annigoni riassume la visione dolente della condizione umana. Tra la cifra biblica e le riflessioni di Primo Levi: “Direste voi che questo è l’uomo?”.