L’AUTORITRATTO INDECISO. Tra il bello ideale e il sentimento del sublime
Nel Settecento gli artisti si ritrovano improvvisamente al crocevia della storia in un periodo di mutamenti rapidi ed epocali. Nel secolo dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni si diffonde l’iconografia del pittore al bivio, talvolta incerto sul percorso artistico o esistenziale da intraprendere.
In anticipo su queste ricerche, nel 1712 il pittore Paolo de Matteis, allievo di Luca Giordano, personalità singolare della pittura napoletana tra Sei e Settecento, è incaricato dal filosofo politico e teorico dell’estetica Antony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, di dipingere un grande quadro di valenza morale con Ercole al bivio tra la Virtù e il Vizio. Nel 1714, de Matteis eseguirà il proprio autoritratto, nel quale ci appare intento a dipingere l’immensa tela con l’Allegoria per la pace di Rastadt, come un moderno Ercole che ha scelto la strada della Virtù, ovvero quella della pittura di storia, tradizionalmente prima nella gerarchia dei generi pittorici.
Su un diverso fronte si collocava l’arte del ritratto, nato dal confronto diretto con la natura, intesa come esaltazione dei sensi. Un esempio significativo è quello di Giuseppe Baldrighi che si raffigura in modo ironico, avvolto in una raffinatissima zimarra da camera, come artista di successo – da poco nominato pittore di corte a Parma dopo un lungo soggiorno parigino – insieme alla moglie, la bella e colta americana Adelaide Nugot.
Un risoluto senso dell’io esprime l’autoritratto in forma di busto di Anne Seymour Damer, sul quale l’artista appone la propria firma in caratteri greci per dichiararsi erede degli scultori antichi. Una riflessione di natura esistenziale – allusiva alle ambizioni dell’artista in confronto alla caducità della vita – si cela invece nell’iscrizione “Col tempo/ Si Spera” che il tedesco naturalizzato inglese, Johan Zoffany appone nell’autoritratto del 1778. Pensato come una rappresentazione del pittore al lavoro su un ritratto ovale del proprio maestro Bernardino Nocchi, l’Autoritratto di Stefano Tofanelli (1783), è espressione invece di quella sobrietà di stile ritenuta d’avanguardia nella Roma di fine secolo.
Col diffondersi della categoria del sublime, l’estetica e l’arte contemporanee si apriranno a nuovi territori dell’irrazionale, schiudendo inediti orizzonti tematici e formali ai pittori più disponibili alla rottura dei canoni classicisti – “nobile semplicità” e “quieta grandezza” – teorizzati da Winckelmann. Johann Heinrich Füssli è audace interprete di questo sentimento potente di mistero e di ineffabilità: lontano dagli exempla virtutis e dalle rassicuranti allegorie celebrative, il personaggio di Amleto incarna il senso di smarrimento e di inadeguatezza dell’artista, in un mondo grande e terribile, in balia di forze incontrollate, percorso dai fantasmi della coscienza.
Saranno i due grandi protagonisti dell’affermazione della scultura neoclassica, Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen a perseguire – rivaleggiando – un percorso di autocelebrazione. Replicato in diverse versioni in gesso e in marmo, l’autoritratto colossale di Canova sarà collocato nel Tempio di Possagno, eretto in suo onore. Lo stesso intento porta Thorvaldsen a fondare a Copenaghen il proprio museo. L’autoritratto prelude così alla celebrazione dell’artista come protagonista della storia: l’idea di un memoriale, di un mausoleo o di un monumento a lui dedicato diventerà presto – anche per questioni politiche – parte integrante della mitografia della nazione.