IL MITO DELL’ARTISTA. NARCISO E LA NASCITA DEL RITRATTO

Dall’antichità al Novecento, l’autoritratto è il sublime ricordo dell’antico mito di Narciso, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Dagli esametri di Ovidio ai mosaici di Antiochia, dalle pareti ocra di Pompei, attraverso la luce del Rinascimento e l’ombra del Seicento, fino all’inquietudine romantica e ai riflessi delle Avanguardie, il rispecchiamento di Narciso è l’auto-rispecchiamento dell’artista.

Il fanciullo dalla bellezza straordinaria che, specchiandosi alla fonte, sedotto dalla propria immagine riflessa, cade preda d’amore per un sé inafferrabile, finendo tragicamente, è metafora del rispecchiamento. Col mito di Narciso lo specchio irrompe nell’immaginario occidentale con la sua capacità di duplicare noi stessi. Lo specchio è la porta dell’immagine. E la figura dell’uomo che si guarda, riassume con la potenza dell’immagine la domanda del conoscere e del senso.

“Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?”

La pittura è il fiore dell’arte; e dipingere è abbracciare con lo sguardo ogni cosa specchiata. Quando, nel suo De Pictura (1435), Leon Battista Alberti assume la metamorfosi floreale di Narciso e la connessa metafora dello specchio quale cifra del pittore e del dipingere, egli lega l’immagine, la forma esteriore, alla conoscenza più profonda. “Sarà felice mio figlio?”, aveva chiesto Liriope, la madre, a Tiresia, ed egli aveva risposto: “Sì, se non avrà conosciuto sé stesso”. Dapprima credette di aver trovato l’altro, diverso da sé. Poi capì che era lui. Il dramma dell’autoreferenzialità lo conduce alla morte.

Così a partire dall’umanesimo vi è una lunga sequenza di raffigurazioni artistiche (soprattutto in pittura) che hanno Narciso e il suo mito come oggetto narrato. Ve ne è qui in mostra una sequenza temporale impressionate. Tintoretto, Carpioni, Mola, Lépicié, Hiolle, Dubois, Bartolini Caucig, Benczúr, Cagli.

La riscoperta di Ercolano e di Pompei, all’inizio del Settecento, e i meravigliosi affreschi ivi rinvenuti determinarono una nuova fortuna della figura e del mito di Narciso. Si diffondono pregiati volumi a stampa, si moltiplicano le incisioni, fino al Novecento. Qui sarà la nuova scienza, la psicanalisi, a trasformarne la figura di un fanciullo semidio in linguaggio interpretativo di aspetti profondi dell’animo umano.

Con Lorenzo Bartolini, nel secondo decennio dell’Ottocento, anche la scultura dona alla figura di Narciso una duplice natura. Quella del “bello ideale”, che secondo Antonio Canova ha ispirato gli scultori antichi, e quella della “bella natura”, suggerita dall’imitazione del vero sull’esempio dei maestri del Quattrocento, e di Donatello in particolare. Ne deriva un compendio di umana verità e di affettuosa tenerezza, tale da superare l’universalità del canone
classico. Il gesso, eseguito per la casata russa degli Orloff, non fu mai tradotto in marmo, rimanendo un esemplare unico.

Paul Dubois istituisce un confronto diretto con la pittura. Fu il critico Théophile Gautier a intuirlo per primo: “Inventare una posa nuova, un atteggiamento inatteso, non è una cosa facile nella statuaria, dove le leggi della statica proibiscono pose che la pittura può rischiare senza temere”.
Trascendendo l’esercizio accademico, Hiolle condensa il mito nel momento carico di attesa che precede il suo tragico epilogo. “Questo sentimento – scrive Ovidio – lo rende inizialmente “immobile e impietrito/ come una statua di marmo Pario” con una similitudine che lo assimila a un’opera di scultura. Si comprende allora la decisione di Hiolle di abbandonare la posa in piedi della tradizione antica, ripresa solo qualche anno prima anche da Paul Dubois, per adottarne una del tutto nuova: inginocchiato sul bordo dell’acqua.

L’arazzo di Corrado Cagli, prestito speciale del Senato della Repubblica, venne commissionato all’artista dall’allora presidente del Senato Amintore Fanfani, dopo che questi vide un dipinto dello stesso soggetto presso lo studio dell’artista a Roma. La naturale inclinazione di Cagli verso temi di ispirazione storico–letteraria e mitologica ben si unisce alla monumentalità offerta dalla tessitura ad arazzo. Il mito di Narciso viene interpretato in chiave fortemente plastica, quasi statuaria, con una composizione che unisce, al rigore delle forme del corpo, la ricchezza dei dettagli della vegetazione, in un raffinato equilibrio di toni fra il blu e le terre.