IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI SIMBOLI
La solitudine, l’impossibilità di stabilire un rapporto con la società e la consapevolezza della propria marginalità: sono i temi ricorrenti in diversi artisti simbolisti che, sul finire dell’Ottocento, cercano nuovi linguaggi. Alla ricerca della propria identità di artista, all’interno di una tradizione maschile, la pittrice Juana Romani vive un dramma personale che la spingerà sull’orlo del suicidio. Rientrato in Italia da Parigi, vittima dell’indifferenza sociale, Antonio Mancini si eleverà a protagonista di molte sue opere. Nei cosiddetti “autoritratti della follia” rivolge lo sguardo dentro di sé per poi rappresentare i vari stadi della malattia in una sorta di documentario psicologico.
Il pittore, scultore, incisore e scrittore tedesco Max Klinger invoca il poeta Ovidio affinché gli conceda l’ispirazione per tradurre in immagini il proprio universo fantastico, mentre Bargellini – come nel mito di Pigmalione – si presenta quale artista-mago, capace di infondere la vita alla propria creazione artistica.
Nell’apparente normalità del suo atelier, mentre Léon Frédéric è intento a fumare la pipa, con in mano gli attrezzi del mestiere, irrompe la figura di uno scheletro appeso, espressione della vanità e della caducità dell’esistenza, ma anche emblema della decadenza morale della società contemporanea.
La mitologia, recuperata a una concettualizzazione della realtà dalla psicanalisi, torna ad essere il linguaggio espressivo degli artisti. Per sorreggere il cartiglio del proprio autoritratto, Franz von Stuck sceglierà due centauri. Con il suo fascino temibile, tra terrore e attrazione, il mito di Medusa – creatura che pietrifica chi osi guardarla negli occhi – diviene uno dei miti più frequentati del Simbolismo europeo, nel quale convergono i temi dello sguardo, della maschera e della potenza erotica femminile. All’epoca dell’esecuzione dello scudo con la testa di Medusa, Böcklin aveva già dipinto il suo quadro più celebre, l’Isola dei morti (1880).
La volontà di andare oltre la percezione comune, nei territori inesplorati della mente e dell’inconscio, fin nel fondo dell’abisso, accomunerà gli artisti simbolisti che, riuscendo a farsi interpreti degli entusiasmi e delle inquietudini della Belle Époque, sapranno rappresentare i grandi temi universali – il senso della vita e della morte, il male, l’enigma, il mistero – in un momento in cui si sentivano minacciati dal progresso scientifico e tecnologico.
All’aprirsi del Novecento, è la figura elegante del pittore e illustratore Oskar Zwintscher, in bilico tra luce e ombra, a esprimere il dissidio interiore dell’artista, individuo incompreso in cerca di risposte. In questo contesto, pur con diverse accezioni, l’artista si presenta come medium o profeta, ovvero colui che sa svelare la dimensione nascosta sotto le apparenze del visibile.
Angelico e demoniaco insieme è anche il volto di Raoul Dal Molin Ferenzona che affiora dall’ombra come un’apparizione spettrale. Con un linguaggio molto diverso si ritrae nel 1894 il nabi (profeta) Emile Bernard, che porta ai suoi esiti estremi quella pittura decorativa brillante, quasi astratta, ma di fortissimo impatto emotivo, sperimentata negli anni trascorsi a Pont-Aven con gli amici Vincent Van Gogh e Paul Gauguin.
Le Frodi di Galileo Chini sono un manifesto dell’artista nella nuova situazione culturale. La ricerca della verità passa attraverso la lotta contro il compromesso, l’invidia e l’ira. La poetica dell’artista poggia solo sulla sua diversità morale. Mentre il misticismo di Malczewski è un inno all’identità della nazione polacca, Emile Fabry dà ampio risalto alla figura umana, che descrive sinteticamente per volumi ampi, ma i colori irreali usati la rendono evanescente, sconosciuta a sé stessa. Gli autoritratti di Alma Tadema e di Sargent mentre chiudono un’epoca immaginata felice, aprono al Novecento incognito.