AUTOBIOGRAFIE. LE PASSIONI E LA STORIA

Il genere dell’autoritratto – sia nelle arti figurative, sia in letteratura – si afferma con la nuova temperie romantica, parallelamente all’evolversi di una società moderna, dove il sistema dell’arte si fonda sulle esposizioni e sul gusto del pubblico, nella quale si fa sempre più strada il culto dell’individuo.

Precursore della tormentata sensibilità romantica, Vittorio Alfieri rappresenta il modello dello scrittore libero, che – dalle Rime al grande affresco della Vita – attraverso l’autoritratto letterario ha costruito la propria iconografia di uomo e di poeta solitario, raffinato e scapigliato, sempre alla ricerca di un equilibrio nei suoi perenni conflitti col mondo e con sé stesso. Il suo sonetto dall’incipit “Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in corpo e in animo qual sono”, nel condensare tratti fisici e della personalità del poeta, stabilisce un modello letterario per i maggiori scrittori dell’Ottocento, da Ugo Foscolo ad Alessandro Manzoni, che sarà poi ripreso e rinnovato da Giacomo Leopardi in chiave interiore, quale rappresentazione dell’animo e della condizione esistenziale dell’artista.

Questa indagine si traduce sul piano visivo in una sequenza di opere, eseguite negli anni di passaggio tra Settecento e Ottocento, nella quale parola e immagine si intrecciano. Nel 1809 il segretario dell’Accademia di Brera, Giuseppe Bossi, dipingerà il proprio autoritratto in un gruppo di amici – il numismatico Gaetano Cattaneo, il grecista Felice Bellotti e il poeta Carlo Porta – consegnandoci una testimonianza esemplare di quel sodalizio intellettuale e affettivo che contribuì a rinnovare il gusto e le arti nella Milano napoleonica.

Nel passaggio da una cultura illuminista fondata sulla ragione alla dimensione visionaria e sentimentale dell’età romantica, sarà Francisco Goya a farsi interprete delle contraddizioni dell’artista contemporaneo. Nella celebre serie dei Capricci, nata come denuncia degli errori e dei vizi umani, l’autore inserisce il proprio autoritratto per due volte, sia in veste di artista ormai affermato – come borghese con indosso il cilindro – sia in quella onirica dell’uomo meditabondo e disperato, con il volto nascosto tra le mani, assalito da paurosi animali fantastici ne Il sonno della ragione genera mostri.

Nel vivo dell’epoca romantica gli autoritratti assumono un valore emblematico per la loro capacità di restituire la potenza creativa, la condizione esistenziale e la malinconia dell’artista. Tommaso Minardi affida ad Antonio Gualdi il compito di fissarne la personalità di saturnino intellettuale romantico facendosi rappresentare in posa, assorto in profonda meditazione. Allo stesso modo Vincenzo Camuccini riuscirà a catturare il momento dell’ispirazione creativa nel ritratto dell’amico miniaturista August Grahl, mentre Giuseppe Bezzuoli ci appare elegante e pensoso, immerso nei suoi sogni d’artista, affermato interprete della nuova pittura romantica a Firenze.

Protagonista della Milano romantica, oltre a rappresentarsi in molti autoritratti, Francesco Hayez ha inserito con sentimento melodrammatico la propria immagine all’interno dei suoi quadri storici, prestando le proprie sembianze ai personaggi dei suoi dipinti. A partire dagli anni Venti, Hayez appare nei suoi quadri di storia, fino a diventarne il protagonista, come nel caso de Due Foscari, eseguito su commissione dell’imperatore Ferdinando I, in occasione della sua incoronazione nel 1838 a re d’Italia. Qui il volto dell’artista, opportunamente invecchiato, si sovrappone a quello del doge Francesco Foscari, costretto a punire con l’esilio il proprio figlio, ingiustamente accusato di tradimento: in questo modo l’autoritratto assume il significato di un’orgogliosa rivendicazione dell’artista, che si presenta al centro della scena in quell’opera che rappresentava il vertice della sua produzione, destinato alla Galleria del Belvedere di Vienna.

L’ unico a poter competere con Hayez per il numero degli autoritratti, è Giovanni Carnovali detto il Piccio, i suoi dipinti hanno un carattere per lo più privato, come se questo “strambissimo” uomo intendesse dialogare con sé stesso registrando nel tempo i profondi mutamenti della sua immagine, sia fisica che interiore. Nel frattempo, in tutta Europa, gli artisti romantici si soffermano a indagare la propria interiorità, dando vita a una serie di opere di grande carica introspettiva. È il caso dell’unico autoritratto noto di Gustave Moreau, artista schivo e riservato, futuro protagonista del Simbolismo europeo, che si rappresenta a ventiquattro anni con sguardo fiero e penetrante, in un dipinto privo di ogni ufficialità. Analogamente Friedrich von Amerling, esponente di punta della pittura Biedermeier a Vienna, si mostra nello studio. Più audace è Anselm Feuerbach quando nel 1857, da poco giunto a Roma, fissa la propria immagine in un meraviglioso abbozzo del proprio volto.

Nella seconda metà dell’Ottocento, gli autoritratti si caratterizzano per un diverso valore emblematico, testimoniando l’avanzata del “vero”, pronto a mettere in discussione le ragioni dell’immaginazione, della fantasia e del sentimento.

Nei panni del borghese, con la coccarda di grande ufficiale della Legion d’Onore appuntata sul gilet, si autoritrae Jean-Auguste Dominique Ingres nel 1858, in un dipinto superbo per la sua intensità espressiva, senza alcuna indulgenza verso sé stesso, il pittore disvela l’immagine dell’uomo autoritario e intransigente, spesso incapace di controllare il suo cattivo umore, in cui la scomparsa della moglie e l’avanzare dell’età hanno instillato un sentimento di mortalità mai provata prima.

Al contrario, davanti alla fine del proprio mondo, deluso per la fine del sogno risorgimentale, Giovanni Fattori si ritrae in un’immagine concisa, di grande poesia, nella quale il pittore asciutto, saldo e rubizzo, ci osserva con quella pacatezza di chi conosce il valore e la irripetibilità della vita trascorsa.