ALLEGORIE DELL’IMMAGINE.
La Prudenza virtù specchiata
Grazie allo specchio e ai suoi significati simbolici, da Giotto in poi, lungo l’intero Rinascimento, si genera una lunga schiera di allegorie, spesso a soggetto femminile, specchiata virtù, vanità e bramosia, bellezza e morte, saggezza e speculazione: Prudentia e Vanitas.
L’allegoria della Prudenza (una delle quattro virtù cardinali, emanazione della Sapienza divina), variamente rappresentata nel corso del Medioevo e del Rinascimento e fino al Settecento, raffigura in genere una giovane donna accompagnata da due elementi: un serpente e uno specchio. Il serpente richiama il versetto del Vangelo “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo 10, 16); esso è simbolo dell’intelligenza usata contro le avversità e parallelamente, essendo un antico simbolo del tempo, il serpente sta anche a ricordare che la Prudenza è figlia del tempo, cioè dell’esperienza.
L’immagine della giovane donna che guarda il proprio volto riflesso nello specchio compare nella iconografia del tardo Medioevo e viene utilizzata frequentemente nella pittura e nella scultura dell’arte rinascimentale italiana. Lo specchio è attributo della virtù che impone la conoscenza di sé stessi in quanto condizione preliminare per regolare le proprie azioni, e per agire dunque in modo virtuoso. La conoscenza di sé implica infatti quella delle proprie possibilità e dei propri limiti.
Venus/Vanitas
Il tema della Vanità (Vanitas), già presente nell’Antico Testamento (“Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità”), viene rappresentato di frequente da figure femminili, in genere bellissime, intente a specchiarsi. Tra il Quattrocento e il Cinquecento, soprattutto Tiziano ci offre una gamma diffusa di modelli. Opere simili con varianti dai medesimi studi. Donne che incarnano la bellezza ideale (la Venere del mito) sono colte sole o con altre figure mentre si ammirano, o affacciate da ipotetici parapetti, sul quale appoggiano uno specchio nel quale si vedono riflessi gioielli, vesti, interni di lusso. La reiterazione del soggetto è indice di quanto questo incontrasse i gusti della committenza.
La Venere di Tiziano, qui esposta, databile negli anni del tramonto dell’artista, conferma la permanenza di questa prodigiosa e prolifica stagione. Ella viene descritta in piedi, frontale, ma con il volto girato verso destra, che guarda fuori campo. Indossa un prezioso bracciale d’oro e porta orecchini pendenti di perle. L’acconciatura è raccolta da un sontuoso diadema con cui cinge il capo, mentre le nudità sono coperte da un mantello di pelliccia che lascia tuttavia scoperto un seno. il modello classico della Venus pudica (esemplare l’Afrodite antica esposta alle quattro colonne) viene difatti interpretato dal maestro cadorino con una chiara valenza erotica, con la divinità che, anziché coprirsi, sembra piuttosto svelare il suo corpo nudo all’incanto dello specchio. Venere-Vanitas diventa dunque emblema e allegoria dell’arte stessa di Tiziano, perfettamente consapevole dell’effetto di seduzione e mistero che le sue opere immancabilmente raggiungevano, e tuttavia figura del suo tempo.
Con i due capolavori di Mabuse e Jacob de Backer, dell’inizio e della fine del Cinquecento, si argomentano gli esiti nordici dell’influsso italiano sul tema Venere/Vanitas.
Nella tavola di Mabuse, una giovane e bellissima donna, vestita solo di una collana, è descritta in piedi sopra un basamento rialzato. Con una mano regge uno specchio, nel quale sta fissando il suo volto, mentre a sinistra, accanto a lei, vi è un’urna di bronzo dorato decorata a sbalzo con teste di ariete, dalla quale germoglia una pianta di garofani. Identificata a lungo come la rappresentazione di una Venere, la tavola è stata individuata da Gustav Glück (1945) come Vanitas, proprio grazie agli elementi accessori dell’iconografia: un elmo piumato, un arco con la freccia e una faretra piena di dardi, e lo specchio e i fiori non ancora sbocciati. Tutti elementi che simboleggiano la transitorietà della gloria terrena e i fuggevoli piaceri della vita.
Mabuse arriva in Italia nel 1509, nell’età di Raffaello e di Michelangelo, e attraverso di loro rilegge i modelli classici. Recentemente, Maryan W. Ainsworth (2012) e Andrea Herrera (2018) hanno riproposto la figura come Venere, sottolineando la derivazione della posa dai modelli delle statue romane della Venus Felix e della Venus pudica. In realtà, i due soggetti appaiono mirabilmente sovrapposti, in una lettura d’indole morale del patrimonio culturale dell’antichità che è prerogativa, nel primo Cinquecento, della speculazione filosofica in area fiamminga: si pensi alle riflessioni di Erasmo da Rotterdam.
La Venere di Jacob de Backer è ritratta frontalmente, con un mantello che le lascia svelati i seni, mentre un sottile nastro trasparente le copre appena le nudità. Sullo sfondo Enea che fugge da Troia. Ella rivolge il capo verso la sua sinistra, brandendo una freccia come un trofeo. Accanto Cupido, che guarda verso l’osservatore, e alle loro spalle una donna anziana che reggere uno specchio sormontato da una clessidra, allegoria del tempo. La faretra appare inutilizzata a terra, coperta da due maschere che simboleggiano l’ambiguità e la frode. La sovrapposizione di diversi soggetti rende quest’opera un testo significativo della stagione del Manierismo internazionale.
La carne, la morte, la fortuna
Di fronte a una parete rocciosa, una giovane donna sta tentando di sfuggire alla presa della morte. Ella è candida nel corpo e nel mantello, con cui copre le nudità. Il demone è rappresentato come una sorta di scheletro immondo, mentre con la mano destra solleva la clessidra del tempo.
Il tema iconografico è consueto nell’arte del Rinascimento in area germanica. Se Albrecht Dürer ne offre un’interpretazione casta, gli altri maestri suoi contemporanei prediligono sottolinearne gli aspetti di intrinseco erotismo: Eros e Thanatos, dualismo che rappresenta la Vanitas, con i piaceri carnali ad assumere il ruolo di delizie effimere della vita terrena. L’artista che più ha descritto questo tema è il grande pittore tedesco Hans Baldung detto Grien, allievo di Dürer a Norimberga. Baldung realizza diverse tavole con la favola de La morte e la fanciulla, tavole che ispirarono sia la lirica di Matthias Claudius, sia il lied di Franz Schubert.
Giulio Campi, esponente di spicco del Rinascimento lombardo ci offre una stupenda allegoria della transitorietà dell’amore carnale. Una giovane donna, abbigliata con un mantello vermiglio che le lascia però scoperto un seno sta intonando un canto d’amore, le cui note sono segnate su un pentagramma aperto sul piano davanti a lei. Ella è accompagnata da un servo di colore che la fissa, mentre un giovane cavaliere protende la mano verso il libello aperto. Un putto alato posa il teschio accanto al libro di musica. Nella fisionomia del giovane di profilo si è proposta la tesi di un autoritratto del pittore, quasi che il dipinto fosse una sincera ammissione delle debolezze dell’artista.
Su una balza, in riva ad un fiume, una figura di arpia appoggia le zampe, dall’aspetto leonino, su due sfere d’oro. Essa è bendata e reca nelle mani due anfore. Dietro di lei si distende un paesaggio rigoglioso, chiuso all’orizzonte da pareti di roccia dolomitiche. Attribuita nel 1946 da Roberto Longhi ad Andrea Previtali (fino ad allora era data a Giovanni Bellini), l’opera rappresenta una sintesi di più allegorie: temperanza, fortezza, giustizia. L’unione di queste tre virtù cardinali era legata, nella speculazione rinascimentale, alla figura della dea Nemesi, che impersonava la distribuzione della giustizia da parte del fato o della fortuna e il conseguente castigo degli “affetti intemperati”.
Vanitas/Veritas
Simbolo della caducità della vita, il tema della Vanitas è da sempre associato allo specchio, oggetto che riflette l’immagine e che ha un rimando al mito di Narciso.
Oltre all’iconografia della donna che si specchia, questo tema può essere rappresentato anche da nature morte in cui sono presenti degli elementi caratteristici: il teschio, la candela spenta o tremolante, il silenzio degli strumenti musicali, che nessuno suona, la clessidra o l’orologio, come simboli del trascorrere inesorabile del tempo; un fiore spezzato, come un tulipano o una rosa, simbolo della vita che, come quel fiore, prima o poi appassirà.
L’affascinante e misterioso dipinto, oggi alla Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini, è stato variamente attribuito: da Gherardo delle Notti (Gerard van Honthorst), a Trophime Bigot. Nel 1960, Benedict Nicolson, coniò il nome di grande successo di Candlelight Master (Maestro del lume di candela).
Esso vede una donna con turbante uscire dall’oscurità grazia al lume di una lampada che, poggiata su due libri voluminosi, riflette la propria fiamma su uno specchio sorretto dalla donna stessa. Con l’altra mano la fanciulla indica un teschio che, al pari della piccola bilancia in primo piano, è tipico simbolo di Vanitas, un soggetto che notoriamente raggiunse nel secolo barocco, un successo e una diffusione inusitati. È questa una meditazione sul mistero della vita e della morte e soprattutto della caducità dell’esistenza e della bellezza, un tema che aveva ovviamente numerose implicazioni religiose confondendosi spesso col Memento Mori. L’opera ricorda per la gamma cromatica, la composizione delle forme e la purezza classicheggiante la Maddalena dipinta da George de La Tour.
L’ironia e il grottesco
Nella Allegoria della Vanitas di Pietro Della Vecchia, una anziana dal volto deforme, descritta di profilo, sta ammirandosi nello specchio, mentre con la mano sinistra saggia il peso della collana d’oro che porta al collo. Un servitore la assiste in questo momento di vanità, sostenendole la specchiera e guardandola con un sentimento di affetto unito ad accondiscendenza.
Se il modello di riferimento è la Vecchia civetta, di Strozzi, oggi al Museo Puskin di Mosca, qui Della Vecchia supera ogni ricerca di decoro, sia nella struttura compositiva della scena che nello stesso profilo della donna anziana, portando alla esasperazione gli elementi grotteschi.
Lo specchio pare in un certo modo assecondare la sua presunzione, restituendole un’immagine migliore di quanto ella non appaia dal vero. Tale dettaglio può svelare una riflessione sull’arte stessa, condotta dal pittore in questo soggetto: l’arte è “specchio” della realtà, ma allo stesso tempo è una sua interpretazione immaginifica. E come lo specchio, può diventare essa stessa uno strumento di vanità.
Di ambito Bergamasco, della metà del Settecento, è questa Dama. Essa rappresenta l’evoluzione estrema, in chiave ironica, di un tema iconografico e letterario diffusosi in Europa a partire dal tardo Medioevo, soprattutto dopo la peste del Trecento: quello della danza macabra. Né nobili, né popolani, né ecclesiastici e né borghesi possono sfuggire alla morte, che tutto livella. Anche nella sua condizione scheletrica la dama mantiene la sua femminilità: è caratterizzata da un abito elegante intonato ai colori chiari, da una capigliatura particolarmente imbellettata, dalla collana di perle di dimensioni abbondanti e da un ventaglio, vezzo tipico delle classi sociali più elevate in particolare nel Settecento. Il portamento aristocratico, impettito ed elegante volge il racconto allegorico delle Vanitas in chiave amaramente ironica.
Vanitas, 1678
Su un tavolo di legno pregiato, coperto per metà da una sontuosa tovaglia rossa che, sollevata come se fosse un sipario, disvela la base decorata a volute fitomorfe, è collocata una lunga serie di magnifici oggetti: vi è un liuto, appoggiato su un carnet aperto, con un pentagramma sul quale è scritto un brano musicale; una preziosa cassetta in legno e argento, con piedi leonini e due putti reggi stendardi a rilievo sulla sommità; vi è del vasellame in argento dorato, fra cui spicca un calice sorretto ancora dalla figura di un putto; candelieri, porcellane cinesi e teiere dalle forme esotiche. In alto una sfera di cristallo riflette la luce della finestra sulla sinistra, e rivela la stanza, nel quale il pittore sta dipingendo. Sulla sinistra in basso, nascosto dietro una superba anfora decorata a sbalzo, vi è un teschio a chiarire il significato dell’intera composizione.
Il dipinto Vanitas (collocato nello scalone monumentale con cui chiudiamo questa sezione) è opera del pittore olandese di nature morte Pieter Van Roestraten: formatosi nella sua città natale, Haarlem, nella celebre bottega di Frans Hals, egli mosse in seguito verso Amsterdam, dove sposò Adriaentje, una delle figlie del maestro. Trasferitosi a Londra, forse subito dopo il grande incendio del 1666, Van Roestraten divenne presto il pittore più ricercato per le scene di Vanitas, ovvero le nature morte particolarmente ricche, nelle quali tuttavia alcuni dettagli suggerivano il senso di provvisorietà dell’esistenza umana, e dunque la vacuità delle ricchezze accumulate.
Sigla personale del pittore divenne la consuetudine di inserire una sfera di cristallo in alto, sospesa sugli oggetti: espediente per mostrare la bravura nelle lumeggiature, ma allo stesso tempo per inserire il suo autoritratto, riflesso al centro della tela. La sfera di cristallo sospesa inoltre era l’emblema delle apparenze della vita terrena, riflessi transitori – il vetro è per antonomasia fragile –, a fronte della solidità delle virtù morali.
La grande tela, oggi conservata al Museo di Ponce, a Portorico, presenta oggetti appartenuti alle raccolte di manufatti dei duchi di Devonshire, i quali possedevano la collezione di oggetti preziosi ed esotici più importante di Londra. Fu la grande circolazione di merci provenienti da ogni parte del mondo, e che convogliavano nei mercati della capitale inglese, a rendere il gusto per l’esotico non più un privilegio da aristocratici, ma una vera e propria moda alla quale potevano partecipare anche i ceti borghesi, in quel momento in rapida ascesa.