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Omero e l’elaborazione del mito nell’antichità

Sin dal primo verso dell’Odissea Ulisse è definito polytropos, cioè versatile. La sua figura sfugge a quella ristretta casistica di virtù guerriere nella quale sono incasellati tutti gli eroi greci venuti a combattere sotto le mura di Troia. Anche il suo fisico, minuto, ma imponente e largo di spalle, sembra rispecchiare il carattere contraddittorio di un uomo goffo e incerto nell’andare che però “quando faceva uscire dal petto la voce profonda / e le parole come fiocchi di neve d’inverno” (Il., 3, 221-223) non era secondo a nessuno.

Ulisse sa essere un guerriero forte sul campo di battaglia, ma al suo carattere sono di gran lunga più congeniali le azioni compiute in notturna insieme a Diomede, come, ad esempio, il ratto del palladio. Il suo ruolo diventa indispensabile solo nel caso di ambasciate, riconciliazioni e mediazioni, occasioni nelle quali all’Ulisse aristocratico si sostituiva l’Ulisse politico che, nell’arte retorica, aveva la sua arma migliore.

Se restituire in immagini le gesta di un guerriero è un’impresa relativamente facile, fare lo stesso con un eroe signore degli inganni e dell’arte della parola è assai più complesso. Questa elementare constatazione spiega l’immensa fortuna iconografica di quelle gesta di Ulisse più agilmente traducibili in schemi figurativi chiari ed efficaci. Non fu un caso che la prima impresa del re di Itaca a essere rappresentata nell’arte greca sia stata l’accecamento del ciclope. Sin dai primi decenni del VII secolo a.C. il capolavoro tattico dell’Ulisse ingannatore fu immaginato come l’assalto di tre o più uomini che, stringendo il palo in orizzontale come una lancia, lo conficcano nell’occhio del mostro.

Seconda, in termini cronologici e di diffusione, fu la fuga di Ulisse e dei compagni legati sotto il vello degli arieti di Polifemo. La produzione ceramica attica a figure nere e rosse del VI e V secolo a.C. dette vita, infatti, a una produzione seriale di vasi ornati con questo motivo che ben si prestava a occupare le superfici allungate dei contenitori. Nella tradizione pittorica arcaica tanto l’episodio del ciclope che quello della fuga dall’antro sono un’azione corale nella quale la figura di Ulisse non è riconoscibile con certezza.

Sarà, infatti, solo nella prima metà del V secolo a.C. che comincerà a definirsi un’iconografia di Ulisse costruita con attributi e caratteristiche fisionomiche ricorrenti: un aspetto maturo e barbato, una capigliatura mossa da riccioli, in testa un pileo, il berretto usato dai marinai e viaggiatori, e, come veste, l’exomide, una semplice tunica corta. È questo l’Ulisse che troveremo raffigurato in altri episodi del suo mito destinati a dominare l’arte di epoca arcaica e classica come la trasformazione dei suoi compagni in maiali per opera di Circe o il fortunatissimo tema di Ulisse e le sirene. Proprio il racconto di questo incontro offre un esempio del ruolo creativo degli artisti antichi nell’immaginare l’universo omerico. Nel testo, infatti, il poeta non dà alcuna descrizione dei mostri incantatori, di cui si ricorda solo il canto melodioso capace di ammaliare chiunque passasse dinanzi a loro. Dovendo dar forma a queste figure un ignoto pittore vascolare del VII secolo a.C. pensò di creare un essere ibrido che unisse l’attrazione erotica del corpo di una donna con il canto melodioso di un uccello. Ecco così nascere quei curiosi esseri dalla testa, il seno e le braccia di aspetto muliebre, conformati, però, a volatile nel resto della figura e destinati a rimanere immutati nell’arte dei secoli successivi.