Le sirene del medioevo
Cosa cantano le sirene? E come sono? Omero non lo dice. Né lo dice, l’altra grande tradizione, quella ebraica, Isaia: “Le sirene e i demoni staranno in Babilonia” (Is 13,21). Per i Greci erano donne-uccello.
Donne seducenti con zampe e code d’uccello. Così sono raffigurate nell’antichità. L’analogia con gli uccelli deriva forse dalla melodia del canto. Nella mitologia, esse sono il risultato di una metamorfosi punitiva occorsa alle ninfe, distratte giovani ancelle, che vegliavano su Persefone il giorno che Plutone la rapì. Di certo, da Omero in poi esse cantano la morte.
Una precisa menzione delle donne-pesce la troviamo nel Liber monstrorum de diversis generibus, un repertorio mitografico composto tra il VII e l’VIII secolo d.C., forse da Aldelmo di Malmesbury: donne-pesce bellissime che seducono i marinai. Molti bestiari si sono incaricati di tramandarne il mito: dal Physiologus alessandrino del II secolo d.C., a quello latino, appena successivo al Liber monstrorum, al Bestiaire di Gervaise, al Bestiaire d’Amours, fino ai componimenti di Brunetto Latini e Cecco d’Ascoli. Ma già Porfirio nel III secolo d.C. vede nelle sirene la personificazione della “bramosie che attirano nel peccato, che conduce alla rovina”. Siamo già nella visione medievale. Seduzione sessuale e minaccia mortale. Nell’arte romanica sono riprodotte ovunque, dai capitelli delle chiese, ai bassorilievi, ai mosaici, ai sarcofagi. Di solito sono bicaudate. I capelli sciolti, con la doppia coda aperta, alzata ai lati del corpo, in un atteggiamento sensuale.
Alcune esemplari d’eccezione sono qui presentati, ad argomentare il cambio stilistico e simbolico. Il più antico è quello di Cividale, risalente al XI secolo. La lastra di Cividale, di incerta provenienza, e che pur datata al Mille conserva ancora i tratti di epoca longobarda, con particolari che richiamano l’altare di Ratchis (VIII secolo). La sirena descrive perfettamente la nuova simbologia della lussuria: le chiome sciolte, le code trattenute aperte sui lati del corpo dalle mani, a mostrare i genitali. L’ambientazione marina, memoria del classicismo naturalistico, in parte la affranca dal mero ruolo simbolico e la conduce nell’ambito di una scultura palesemente più descrittiva, non estranea alle esperienze artistiche nell’Italia settentrionale intorno all’XI secolo.
Nel mosaico ravennate del 1200, proveniente dall’antico ciclo decorativo della chiesa di San Giovanni Evangelista, la sirena appare frontale, con le due code asimmetriche di pesce aperte ai lati del corpo e trattenute dalle mani, la chioma bionda e fluente ricadente sui fianchi fino alle braccia, il seno appena accennato. Di quella secolare visione del fantastico e del mostruoso che minaccia gli uomini si fa carico ancora Dante, che nel XIX canto del Purgatorio (vv. 19-24) ne mantiene la simbologia: “‘Io son’, cantava, ‘io son dolce serena / che’ marinai in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s’aùsa, / rado sen parte; sì tutto l’appago”.
Il gusto delle storie antiche rimane. Ulisse, Paride, Achille vanno a ornare oggetti e piccoli manufatti. A partire dalla seconda metà del XIII secolo, in età gotica, eleganti cassettine vengono realizzate in avorio e destinate alle corti e alla “gente nova”, arricchita. Di questa tradizione rimane traccia in un capolavoro, il cofanetto classense, del XV secolo, decorato con placchette raffiguranti la storia di Paride. Anche qui tra le figure mitologiche ritroviamo le sirene, associate alla bellezza, al piacere corporale, a quei che Arnaut Daniel definiva “vani diletti”.