La ripresa dei modelli antichi e l’eredità romana

La fortuna di Ulisse e del suo mito nella cultura romana coincide con la nascita stessa della letteratura latina. Il primo poema epico latino di cui si abbia notizia certa è infatti l’Odusia di Livio Andronico.

Perché, sul finire del III secolo a.C., questo tarantino naturalizzato romano, abbia deciso di realizzare una traduzione d’autore proprio delle vicende di Ulisse, non è semplice spiegarlo. Forse una società come quella romana di quegli anni, in piena espansione commerciale e militare nel Mediterraneo centrale e orientale, era istintivamente propensa a identificarsi con un eroe che quelle terre e quei mari aveva attraversato affrontando ogni genere di pericoli e sfide. D’ora in poi, comunque, Ulisse costituirà un personaggio focale nell’intera storia dell’arte e della letteratura romana che declinerà le sue gesta e il suo carattere nei modi più diversi. I soggetti legati alla saga di Ulisse furono infatti utilizzati sia nel repertorio funerario, come anche in epoca etrusca, sia nella decorazione pittorica delle domus, come pure in quella scultorea dei giardini che le circondavano.

Sarà soprattutto l’episodio di Polifemo a suggestionare gli artisti che, forse già in età tardo-ellenistica, dettero vita a un modello figurativo destinato a influenzare profondamente il gusto di età successiva. Su una varietà di supporti estremamente diversificata, dai mosaici ai sarcofagi, dalle gemme alle lucerne, si affermò uno schema iconografico con il ciclope posto al centro e uno dei compagni di Ulisse ormai morto riverso sulla sua gamba; alla sua sinistra si avvicina il re di Itaca protendendo la coppa colma di vino con il quale ubriacare il mostro. Sarà questa teatrale e concitata restituzione dell’episodio omerico a essere tradotta anche in gruppi statuari di dimensioni colossali, direttamente legati alla più alta committenza politica dello Stato romano, nei quali la figura di Ulisse verrà caricandosi di valori celebrativi fino ad allora ignoti. Ad esempio, nella villa di Sperlonga, buen retiro dell’imperatore Tiberio, l’Accecamento del ciclope era parte di una vera e propria antologia in scultura delle imprese di Ulisse, di cui faceva parte il gruppo detto del Pasquino, in questo contesto interpretato come Ulisse con il corpo di Achille, il ratto del palladio e la lotta dell’eroe contro i mostri marini Scilla e Cariddi.

La semplice origine della gens claudia, a cui apparteneva Tiberio, da Tusculum, città secondo il mito fondata da Telegono, figlio di Ulisse e Circe, e la prossimità della villa a un luogo come il Circeo, identificato in età romana con l’antico rifugio della maga, non sembrano essere sufficienti a spiegare una celebrazione così articolata dell’eroe. In questo caso, Ulisse finiva con l’incarnare una più complessa architettura simbolica, strettamente legata al mito di Roma. Fu grazie al ratto del palladio che Ulisse privò Troia della protezione divina ed è stato grazie alle armi divine del padre Achille che Neottolemo espugnò la città. Il re di Itaca fu, quindi, il primo motore di quella concatenazione dei tragici eventi troiani (i fatalia troiana) grazie ai quali Enea fu costretto ad abbandonare la sua patria e a dar inizio a quella stirpe Iulia di cui Tiberio era membro adottivo. Nella figura dell’imperatore sembravano confluire due destini strettamente legati fin dalla notte dei tempi: quello di Ulisse, il cui figlio Telegono avrebbe appunto fondato la città d’origine della gens claudia, e quello di Enea, ai cui discendenti era stato affidato lo scettro di Roma.