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L’esaltazione della santità e del martirio

Il Concilio di Trento non produsse un decalogo in fatto di iconografia sacra.

Nel contesto di alcune prescrizioni generali, circa il rispetto dei soggetti raffigurati e la loro degna rappresentazione, demanda ogni decisione definitiva ai singoli vescovi. Grande influenza avranno alcuni testi pubblicati nella seconda metà del Cinquecento, dal Dialogo di Giovanni Andrea Gilio sugli errori di pittori circa l’historie (1564), ai sinodi lombardi di Carlo Borromeo, al Discorso intorno alle immagini sacre e profane di Gabriele Paleotti (1582). L’obiettivo principale di questi trattatisti era quello di fornire ai pittori delle indicazioni di carattere generale per l’esecuzione, prima di tutto, delle pale d’altare: è infatti attraverso queste opere pubbliche che la Chiesa si rivolge ai fedeli.

Un caso emblematico del processo di normalizzazione a cui le immagini sacre furono sottoposte nella seconda metà del XVI secolo è rappresentato dal confronto fra due diverse redazioni del Martirio di santa Caterina d’Alessandria, opera rispettivamente dell’emiliano Lelio Orsi e del lombardo Giovanni Battista Pozzo. La prima, un capolavoro databile al 1565 circa, pur non essendo una pala d’altare è un’opera che bene esemplifica un certo modo di tradurre visivamente la religiosità controriformata, attraverso un patetismo esasperato, quasi aggressivo. Ma questa non era una strada agevole per tutti. Per parlare ai fedeli, la Chiesa preferiva forme espressive diverse: l’eloquio alto e solenne, e al contempo facile e colloquiale, della pala di Pozzo, successiva di venti anni circa, va incontro a una nuova forma di pietà e di devozione.