L’Unità d’Italia: la moderna quotidianità dei Macchiaioli

All’indomani dell’Unità Nazionale un fervore urbanistico attraversa la Firenze capitale alla rincorsa dei modelli e degli stili di vita delle grandi metropoli europee, mentre nei dintorni – nella quiete degli orti, dei campi, delle case coloniche – ancora sopravvive l’animo semplice della media borghesia, quel gruppo sociale che pur avendo partecipato all’ideale risorgimentale, ora a fatica si riconosceva nella realtà del nuovo stato unitario.

In quel chiaroscuro politico si tratteggia il chiaroscuro pittorico dei giovani macchiaioli – da Silvestro Lega a Odoardo Borrani, a Telemaco Signorini, a Vincenzo Cabianca, a Michele Tedesco, a Giovanni Fattori – capaci di confrontare le tecniche apprese dalla pittura accademica con le nuove esperienze poetiche europee, soprattutto francesi.

Essi giungono così a trascrivere nel loro stil novo raffinate scene d’interni borghesi, tra mondana eleganza e partecipazione sentimentale, come pure in nitide visioni di campagne assolate, percorse da giovani donne in abiti dallo stile sobrio e dignitoso. Un nitore compositivo che traluce una trattenuta, provinciale eleganza: forme plastiche libere e solenni che si fanno specchio di un ideale sociale di moderna innovazione e di rigore morale.
La Macchia rappresenta, nell’arte italiana del XIX secolo, il fenomeno di maggior slancio di rinnovamento europeo, tale da poter reggere il confronto con l’Impressionismo francese.

A partire dalla nascita dell’Italia unita, vengono dal Sud e, segnatamente dalla Sicilia, testi narrativi che denunciano i limiti del processo di unificazione, che esprimono la delusione meridionale di fronte al nuovo Stato incapace di risolvere i problemi del Mezzogiorno. Nessuno più di Tomasi di Lampedusa, con Il Gattopardo ce ne ha restituito il clima. “La Sicilia, l’aristocrazia, i contadini, le zitelle hanno ciascuno le proprie cose e son definiti attraverso di esse. Gli uomini non si differenziano dalle cose e come esse vanno alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano” (Gioacchino Lanza Tomasi).

È il romanzo della storia che si ripete, che non conosce reali e profondi cambiamenti. Una trasformazione inevitabile come lo scorrere delle cose, proiettata nella Sicilia dell’aristocrazia declinante e della borghesia in ascesa dello sbarco di Garibaldi a Marsala, trova la sua più scintillante e spietata rappresentazione nell’abito da ballo indossato da Angelica Sedàra nella celeberrima scena del ballo a Palazzo Pantaleone.
Con questa candida veste, dalla leggerezza insostenibile, Angelica entrerà trionfante in un mondo allo stesso tempo nuovo e antico, fatto di opportunismi, trasformismo politico e deserto esistenziale, dove se si vuole che “tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.