Dall’Ancien Régime alle Rivoluzioni

“L’homme ne peut laisser à son corps la forme que lui a donné la nature” dichiarava nel 1776 lo scrittore Jean-Nicolas Démeunier. Nel pieno fulgore della società francese del Settecento – tra culto delle apparenze, grazia e lusso, nuove istanze della filosofia dei Lumi – l’abito assolveva anche alla funzione di indicare l’identità sociale di un individuo, il suo ruolo, i suoi compiti, il suo rango, senza rinunciare al gusto e all’inventiva individuali, ma celando sotto la foggia dell’abito la saldezza del principio sui si fondava quella civiltà, ovvero una sorta di volontà di permanenza nel tempo.

Il mondo aristocratico del Settecento, fatuo ed esclusivo, governato dallo sfarzo e dalla ricerca del piacere, trovava nella moda (la “vezzosissima dea” dei versi di Giuseppe Parini) – e di riflesso nel ritratto maschile e femminile – una forma congeniale di autorappresentazione. Si parlava di lusso d’imitazione, che sembra essere diventato, in tutta Europa, il sistema alla moda.

Il tema rientrava nel quadro di un dibattito più ampio che aveva il suo centro in Francia e in Inghilterra. Se ancora alla metà del secolo “il sarto della società elegante [doveva] essere francese e [fregiarsi] del titolo di Monsieur” e la goldoniana contessa Clarice sosteneva che una stoffa “per esser bella, [doveva] esser di Francia”, attorno agli anni ottanta per le strade di Parigi si potevano vedere sempre più numerosi vestiti di foggia inglese.

Un nuovo modo di vestire importato da oltremanica – ma sapientemente rielaborato in Francia – stava ormai scalzando il completo maschile tradizionale composto da marsina, sottomarsina, camicia, calzoni fermati al ginocchio, spesso confezionato in tessuti preziosi, arricchito da bottoni, galloni e ricami. Agli uomini spettava una ricchissima gamma di costumi, dalla vasta serie di capi dell’abbigliamento informali fino ai fastosi abiti di corte, di cerimonia e degli ordini cavallereschi, che comprendeva una vasta gamma di accessori e l’immancabile parrucca incipriata, destinata a diventare in epoca rivoluzionaria l’odiato simbolo dell’aristocrazia.

Molti dei viaggiatori del Grand Tour si prendevano l’incomodo di portare con sé l’abito nel quale desideravano essere ritratti, in qualche caso gli inglesi acquistavano in Italia un elegante guardaroba a prezzo più vantaggioso che in patria, dove gli articoli di lusso erano soggetti a tassazione, o si rivolgevano ai sarti italiani. Nello studio di Pompeo Batoni – “il miglior pittore d’Italia” e “il miglior ritrattista del mondo” (Bowron 2008) – i protagonisti dell’alta società internazionale posarono stretti nelle loro uniformi o negli abiti di corte, ma sempre più spesso i britannici preferirono apparire con elegante nonchalance in abiti dal taglio semplice e lineare, giacche e gilet dalle lunghezze sempre più ridotte, adatti a uno stile di vita più dinamico.

La giacca attillata – o redingote – dalle lunghe code, in origine adottata solo in campagna, diventò rapidamente un capo essenziale del guardaroba, anche in versione femminile. Per le dame, infatti, si avviava al declino la robe à la française (Andrienne in Italia), modello composto da una sopraveste, una sottana, una pettorina, sulla quale per decenni una schiera di marchandes des modes – prima commercianti, quindi abili creatrici di decorazioni e ornamenti – si era esercitata in infinite variazioni di colori, tessuti, pizzi, nastri, piume, cui venivano sapientemente abbinate le acconciature e gli indispensabili ventagli.

Nella continua interferenza tra l’arte del ritratto e quella della moda, entrambe dedite alla costruzione artificiale di un’immagine, di cui i ritratti di George Romney, Joshua Reynolds, Thomas Gainsborough ne sono lo specchio sublime, si inserisce lo speciale rapporto tra la modella e il pittore. In una società nella quale si agitavano nuove idee democratiche, la scelta dell’abito non rappresentava più una questione di stile o di potere: laddove non si era più obbligati ad apparire quel che si è, si poteva esercitare il diritto di apparire quello che si desiderava essere.

La “chemise à la reine”
I primi ad avvicinarsi alle tendenze più aggiornate della moda inglese furono le élite aristocratiche, ne è qui un esempio sublime la scena, intima, familiare dei Borbone, ritratta da Angelica Kauffmann.
La stessa regina Maria Antonietta abbandonò le acconciature turrite e le dispendiosissime eleganze rococò per adottare abiti dalla foggia semplice, ma non meno costosi. Tra teatralità privata, gusto per il travestimento e godimento per la vita all’aria aperta, già nel 1779 la sovrana e le sue dame passeggiavano abbigliate da pastorelle con grandi cappelli di paglia negli spazi dell’Hameau de la Reine, una sorta di villaggio rurale fatto costruire nel parco di Versailles.
Ma la vera rottura con la tradizione si consumò nel 1783, con l’esposizione al Salon dello scandaloso ritratto di Maria Antonietta,
che l’amica Élisabeth Vigée Le Brun aveva rappresentato in una semplice veste leggera di mussola bianca, destinata a diventare poi di moda con il nome di “chemise à la reine”, complice la modista più famosa del suo tempo Rose Bertin.
Il pubblico rimase scioccato davanti all’immagine di una giovane donna dall’eleganza discreta e malinconica, colta nell’intimità delle proprie stanze mentre sistema dei fiori in un vaso, poiché tutto – ma soprattutto la veste – contraddiceva i canoni di rappresentazione della monarchia, la cui espressione più eloquente era ancora lo sfarzoso grand habit di corte che prevedeva un’ampiezza di almeno un metro.
Maria Antonietta con un’informe veste bianca e una cuffia aveva affrontato il patibolo, una donna di trent’otto anni stanca, indurita, chiusa nel suo orgoglio. La stessa donna cui il pittore inglese William Hamilton ha conferito l’aspetto di una figura angelica nella sua candida veste di mussola contribuendo alla nascita del mito della regina martire. Figura tra le più controverse, Maria Antonietta si è imposta come icona di stile, ispiratrice di mode e tendenze fino alla contemporaneità: evocata nelle crinoline dell’imperatrice Eugenia, durante il Secondo Impero, o nei costumi del ballo settecentesco organizzato dalla leggendaria Marchesa Casati in piazza San Marco nel 1913, omaggiata dall’abito di John Galliano, tra sogno e trasgressione.