La grafica e le edizioni a stampa tra Sette e Novecento

L’ambiziosa impresa di figurare la Divina Commedia fu principalmente espressa attraverso le arti grafiche: dai primi adornatori di manoscritti a Botticelli, che fu tra i primi artisti ad impiegare il mezzo più libero della rappresentazione e della narrazione, ossia il disegno, fino al tardo Rinascimento quando ai codici miniati subentrarono l’incisione in rame e in legno di carattere meno ornamentale e più descrittivo.

Dopo l’ultima edizione illustrata del 1596 bisognerà arrivare alla metà del Settecento per avere nuove edizioni arricchite da tavole.  Soltanto con l’ascesa della popolarità di Dante in Inghilterra alla fine del XVIII secolo, dovuta in parte alle letture di Samuel Taylor Coleridge, gli incisori e gli illustratori si rivolsero nuovamente a Dante e a quegli episodi – principalmente Ugolino e Paolo e Francesca – che meglio potevano esprimere l’estetica del Sublime. John Flaxman, dando alla luce una Commedia senza i versi del poeta, narrata solo per immagini, concepita come vera e propria interpretazione visiva del testo dantesco, creerà un genere che avrà grande successo. Ma se la semplicità delle sue linee di contorno tratteggerà un ideale figurazione priva di qualità sensuali, con Heinrich Füssli e William Blake si andrà sviluppando quell’atmosfera di classicismo tenebroso anticipatore del Romanticismo.

Agli inizi del XIX secolo il recupero di Dante si era esteso dall’Inghilterra alla Germania e nuovamente all’Italia. Luigi Ademollo eseguì, per l’edizione detta “dell’Ancora”, ottantacinque incisioni di stile michelangiolesco che mostravano le tangenze coi romantici tedeschi. Maggior fortuna riscosse la raccolta di incisioni dantesche di Bartolomeo Pinelli, che testimoniava quell’avvenuta contaminazione tra Classicismo e Romanticismo che evidenziava l’enfasi teatrale dei momenti più drammatici del poema.

Dopo i fasti romantici e puristi di Scaramuzza, fedelissimo al testo letterario, il primato della più monumentale raccolta di illustrazioni dantesche spetta senza dubbio a Gustave Doré, che sviluppò un intenso senso del fantastico notturno e del sovrannaturale divino che influenzò e continua ancora oggi a colpire l’immaginario collettivo.

Molti artisti fin de siècle, consapevoli del fascino e della risonanza che Dante aveva avuto in ambito preraffaellita, reinterpretarono la morbida descrittività anglosassone in senso più scabro ed essenziale, alla luce degli stilemi eterodossi del Simbolismo internazionale.

La seduzione dell’inesauribile repertorio dantesco e in particolare la Vita Nova, si offrì come ispirazione per gli artisti che avevano aderito al «Salon de la Rose + Croix», fondato dall’esoterista e letterato eccentrico Joséphin Péladan. Le componenti visionarie e misticheggianti del Simbolismo e la rilettura esoterica di alcune opere dantesche ispirarono l’opera del livornese, emigrato a Parigi, Alfredo Müller, che reinterpretò il poeta proprio nelle vesti di un iniziato che si erge sulle fiamme dell’inferno e la cui figura è incorniciata dall’albero della conoscenza del bene e del male.

In area mitteleuropea Dante segnò la fantasia di quel gruppo di artisti che avevano scelto l’Italia come «luogo dell’anima». Il Deutsch-Römisch Otto Greiner, che operò a contatto con artisti come Klinger e Severini, aveva restituito un’immagine del poeta dal carattere quasi fotografico, lontano dagli stereotipi.

In ambito italiano invece una vera e propria fioritura di ritratti di Dante si ebbe in coincidenza con le celebrazioni per il sesto centenario della morte del poeta, quando il Ministero della Pubblica Istruzione pubblicò nel 1920 un bando per la realizzazione di un ritratto ufficiale del poeta. In quell’occasione Adolfo De Carolis realizzò il suo celebre Dante Adriacus, poi ritirato dal concorso perché Gabriele d’Annunzio lo volle in esclusiva per la sua dimora.

Chiude questa sezione Giulio Aristide Sartorio. L’artista, che aveva partecipato all’edizione Alinari del 1902 con alcuni importanti disegni, accettò di realizzare un grande ciclo decorativo, intitolato il Poema della vita umana, per il Padiglione Italia della Biennale veneziana del 1907. Nelle quattro scene principali – La Luce, Le Tenebre, L’Amore, La Morte (qui in mostra) – l’artista propose la sua «umana commedia»: una visione intensamente drammatica dell’esistenza. La complessa iconografia appare come la sintesi tra mondo mediterraneo e cultura nordica, con riferimenti alla concezione nietzschiana dell’eterno ritorno.