La bocca sollevò dal fiero pasto
IL CONTE UGOLINO, LAOCOONTE MODERNO
Quando Dante viene riscoperto alla fine del Settecento nell’ambito della poetica preromantica del sublime, il personaggio che attira prima di tutti le attenzioni degli artisti soprattutto in Inghilterra, tra Reynolds e Füssli, è il conte Ugolino la cui terribile vicenda era già stata rappresentata in modo esemplare in un celebre e stupendo bassorilievo in bronzo di Pierino da Vinci, allora molto popolare anche per la prestigiosa attribuzione a Michelangelo.
Dal suo esempio i pittori trarranno ispirazione nel rappresentare un soggetto così drammatico e appassionante, riuscendo a rendere, attraverso la potenza della luce e del colore, “le carni pallide e livide dei corpi morti o agonizzanti”, il “buio cupo della prigione” e gli stessi costumi, “capaci di rappresentare lo stato sociale delle persone raffigurate” (Battaglia Ricci).
Anche se la sua comparsa e la sua fortuna sembrano indissolubilmente legate alla stagione sperimentale del neoclassicismo sublime, quando il soggetto viene trattato soprattutto nella grafica raggiungendo vertici altissimi nei disegni di Luigi Sabatelli, la vicenda di Ugolino e dei suoi figli ha continuato, anche quando emergerà e trionferà il mito romantico di Paolo e Francesca, a suscitare l’attenzione di artisti, letterati e musicisti, diventando tema di dipinti, tragedie, romanzi e melodrammi che, negli anni del nostro Risorgimento, ne privilegeranno un’interpretazione politica, identificandolo come vittima di dispotismo clericale ed eroe della libertà.
Così appare nei dipinti di impostazione monumentale di Giuseppe Diotti o Antonio Gualdi. Vi emerge un Ugolino fiero, molto diverso dalla figura tormentata, vittima di un male quasi cosmico attestato tra Sette e Ottocento. Il suo mito divenne molto popolare, identificato e reso come una versione moderna di quello del Laocoonte. Per il critico romantico Carlo Tenca _ in riferimento al dipinto di Diotti _ il conte Ugolino incarnava l’ “immagine di un dolore immenso, forse più profondo perché meditato” di quello dell’eroe antico. Un dolore che si manifesta “non improvviso, perché chiuso fra le mura di un carcere, e non al cospetto di un popolo”.